TEMPO MORTALE E METAMORFOSI VITALE
da MULTIVERSI Aequilibrium, CERIBELLI EDITORE, 2022
Che cos’è il tempo?, si domanda Agostino in una celebre pagina delle sue Confessioni. “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorrere del passato, in che senso dichiamo che esiste anch’esso? Se appunto la sua sola ragion d’essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c’è solo in quanto tende a non essere”.
Da allora, dai tempi di Agostino in avanti, non c’è stato pensiero filosofico che abbia potuto prescindere da tale vertiginosa riflessione. Ma quanto vale per la filosofia, vale anche per l’arte, che dell’indagine sul tempo ha fatto una vera e propria ossessione. Come dimostra l’opera di Roberto Giavarini, al centro della quale campeggia idealmente un orologio. E che orologio! Il ginevrino Patek Philippe. I suoi minuscoli e mirabili ingranaggi vengono sottoposti ai raggi x, ma Giavarini è troppo avvertito per fermarsi a quei sofisticati meccanismi. Sa che dentro e sotto e alle spalle di quel cronometro di sublime precisione si nasconde il mostro a due teste indagato da Agostino, Proust e Beckett. Sa che esiste un tempo lineare e un tempo circolare. Sa che Dio, o chi per lui, può farsi beffe di noi proprio attraverso l’inafferrabilità del tempo. E allora affianca al ticchettio dell’orologio par excellence tutte quelle figure che sono lì per contraddire la sua straordinaria, implacabile precisione. Ed ecco così comparire una donna, simbolo di quell’Eros che finisce per scompaginare l’idea meccanica e lineare di passato, presente e futuro. Ecco affiorare l’eterno immemoriale sotto forma di cristalli colorati, che tramutano in frutti e fiori e, per contro, lo svolazzare di una delicata libellula, quintessenza dell’effimero. Ecco comparire uno smagliante camaleonte che nel suo ininterrotto mimetismo pare alludere all’idea tragica dell’umano avanzata da Pico della Mirandola, convinto che solo una perenne messa in scena può placare il nostro costitutivo vuoto interiore, dettato ab origine dal libero arbitrio. Mentre su tutto aleggia una luce subacquea che avvolge ogni cosa in un alone di mistero; un mistero raddoppiato dalla presenza di quelle bottiglie ‘morandiane’ che paiono vivere nella più totale indifferenza il doloroso procedere dell’orologio, che conduce l’umano alla morte.
Se il tempo è davvero una atroce beffa, tanto vale vivere la vita come un sogno, come un’illusione. E quale sogno, quale illusione è più potente del cinema? L’artista begamasco ne è talmente consapevole da presentarci le sue opere come dei video-clip, dei micro-film, dove tutto è in movimento: gli oggetti di scena e la luce che li attraversa, senza contare la musica d’autore che li riveste di magici suoni. Se poi questi richiami non fossero sufficienti, ecco comparire su una tela la pizza di un film, con i diversi fotogrammi impressi sulla pellicola che scorrono davanti ai nostri occhi. E subito il pensiero va a Hugo Cabret, il film di Martin Scorsese, che mette a tema per l’appunto il tempo – attraverso l’ossessione del piccolo protagonista per orologi, automi, ingranaggi, rotelle, lancette, congegni di ogni genere. Il mondo è una grande macchina, sostiene l’intraprendente, avventuroso Hugo. E nostro compito è quello di ripararla di continuo. Ma la macchina del mondo può anche rovesciarsi in un panopticon infernale, come mostra un incubo ricorrente del ragazzino. E per uscire da quell’incubo occorrono cuore, fantasia, slancio, magia. Arte. Occorre appellarsi all’incessante mutevolezza della metamorfosi, vero e irrinunciabile volano della vita. Come vide per primo Ovidio e che Canetti scelse come strada ideale per spezzare la terrificante catena che lega tra loro la massa, il potere e la morte.
Giaravini si fa erede di questa nobilissima tradizione e a tal fine insegue l’idea di un’opera- mondo capace di germinare senza fine, opera a cui possono e devono concorrere idee e materiali e tecnologie le più diverse: l’arte fisica e l’arte digitale, la materica concretezza dell’antico lavoro artigianale e gli ologrammi, la musica e la poesia, i lapislazzuli afgani mescolati con il torlo d’uovo e il metaverso. E’ il sogno che si concretizzerà in Hivearium, dove immagini forme parole colori e suoni tramutano di continuo in una cosmica metamorfosi. Eppure il muro eretto dal tempo, resta. Ed è in questa incessante battaglia tra tempo mortale e metamorfosi vitale che si gioca la nostra volatile presenza mondana.
Per questo mi piace concludere tornando là da dove eravamo partiti. Ovvero chiamando in causa un altro gigante della Chiesa. Avevamo cominciato con Agostino e finiamo con Paolo, che nella prima lettera ai Corinzi scrive: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo”.
Per Paolo insomma, il tempo sta ammainando le sue vele. Però a suo dire non c’è motivo di angosciarsi, perché quale che sia il periodo d’intervallo che ci separa dalla parusìa, resta acquisito che resuscitato il Cristo il mondo futuro è già presente. Ecco perché ci invita a fare ‘come se’. Come se non si avessero mogli, possessi, godimenti. Ma chi riconosce la propria estraneità alla credenza della resurrezione, non può seguirlo fino in fondo. Giacché proprio l’aculeo della finitezza gli farà amare con struggente attaccamento ogni ‘resto’ ancora palpitante.
E’ nell’istante, solo in quello, che balena per noi la parusìa: presenza dell’ideale essenza nel mondo del sensibile. Che Roberto Giaravini restituisce in arte. Ben consapevole, con i latini, che vita brevis, ars longa.